Per amore e per necessità “Pupíddi e Papágni” placavano le orchestrine notturne dei pargoletti!

Papavero

Foto da “Salento come eravamo” facebook

Per amore e per necessità Pupíddi e Papágni” placavano le orchestrine notturne dei pargoletti!

Le nuove generazioni non sanno cosa vuol dire vivere in casa senza energia elettrica. In passato per fare un po’ di luce in casa, specialmente d’inverno, erano usate candele, lumini, lumi a petrolio e lucignoli ad olio. L’insufficiente illuminazione procurava un forte disagio nelle famiglie, maggiormente di notte, quando il buio era più cupo. Le mamme, come sempre, erano quelle che risolvevano (e risolvono) tutto, preparando in tempo utile e a portata di mano tutto ciò che era necessario per la notte. I neonati, il genere umano notturno più esigente, erano quelli che reclamavano a viva voce gli interventi immediati per essere allattati, cullati o “n’papágnati”. E questo si risolveva facilmente avvicinandoli al seno o cullandoli tra le braccia; ma a volte il pianto dei pargoli era manifestazione di altri disagi e/o intolleranze e quindi chi riposava dopo una giornata di duro lavoro non poteva essere svegliato da questi vagiti martellanti. In quell’unica stanza dove dormivano in tanti, quelli erano momenti delicati e non dovevano procurare tensioni o scatti d’ira, in quanto quelle persone all’alba dovevano rialzarsi per una nuova e lunga giornata. Così l’intervento della mamma, velocissimo, consisteva nel mettere in bocca del neonato “lu pupíddu”. Cos’era? Un finto capezzolo, anatomicamente molto rassomigliante a quello del seno materno. Si preparava la sera prima e lo si metteva vicino al cuscino del neonato. Era formato da un fazzoletto o pezzo di lino bianco dove in un angolo si metteva della soffice mollica di pane, quanto un cucchiaino, aggiungendo un po’ di zucchero; lo si avvolgeva bene tanto da formare un piccolo palloncino e poi lo si legava ben stretto con un po’ di filo di cotone. Ma a volte “lu pupíddu” non riusciva a zittire l’orchestrina notturna e così si passava alle maniere forti inzuppando leggermente “lu pupíddu” nel decotto “tlu papágnu”, un decotto sedativo e calmante che si otteneva facendo bollire nell’acqua le capsule immature del papavero. Gli strilli notturni d’incanto cessavano. Placati o sedati per amore o per necessità, i bambini si calmavano e la notte proseguiva nel silenzio col riposo di tutti, anche dei neonati, perché si diceva che i bambini crescevano nel sonno. “Lu papágnu”, infuso di fiori di papavero “šcattagnòla” era usato prevalentemente dagli adulti per calmare dolore di denti, cura di coliche nefritiche e “quartana” (febbre intermittente che ritorna ogni quattro giorni) non mancava mai nelle famiglie, molte numerose a quei tempi, tanto che era comune sentire:“Pigghjiti lu papagnu e tti passa lu tilòri!“ – Prenditi il decotto di papavero ed il dolore ti cessa! oppure “Cce s’à ppigghiàtu lu papagnu?“ – Ha preso il decotto di papavero? Quanto descritto rientra nei tanti rimedi usati dai nostri antenati per la conoscenza di erbe mediche ancora valide ai nostri giorni.  Cosimo Luccarelli