La sezione “Antichi Mestieri”, ormai già nota ai tanti visitatori di questo blog, contiene solo l’elenco nominativo dei tanti mestieri e lavori manuali che venivano svolti anticamente nella nostra città. Dopo la pubblicazione del volume “Arte del fare, nel ricordo degli antichi mestieri”, opere pittoriche di G. Mastro e testi di Cosimo Luccarelli, credo di far cosa gradita ai lettori riportare su “grottagliesitablog” questo interessante lavoro, affinchè si possa conoscere la vera storia sui mestieri, che è stata espressione della capacità di sviluppo, di creatività e dell’ingegno di tante generazioni. Dopo il maniscalco, il cavapietre, il barbiere, il riparatore di oggetti in creta, il netturbino, il calzolaio, il maestro dei muratori, il seggiolaio, il figulo dell’arte presepiale, i pellai, la pasticciera, il gelataio, l’imbianchino, i frantoiani, i suonatori di serenate e il venditore ambulante di stoffe, vi presento “lu mmolafórbici” ossia l’arrotino.
È rrivátu lu mmolafórbici! E’ arrivato l’arrotino!
Il mestiere dell’arrotino è sempre stato uno dei tanti mestieri ambulanti al servizio della collettività. Attorno a questa mitica figura, le strade, i vicoli e le piazze si riempivano di donne, uomini e bambini curiosi per vedere all’opera “lu mmolafórbici”. In genere era un uomo dall’aspetto vecchio, silenzioso e scuro in faccia come se il sole lo avesse bruciato nel tempo. Prima dell’avvento della bicicletta lui girava con una specie di trabiccolo a ruota, molto pesante e ingombrante, dove era stata montata un’impalcatura in legno con la ruota abrasiva. Per la molatura lui sollevava il trabiccolo su un cavalletto di legno, collegava le due ruote con una cinghia di cuoio e tramite un pedale girava lentamente la mola in funzione dell’utensile da affilare. Man mano che l’Italia cresceva, l’arrotino si organizzava e così la bicicletta fu il suo nuovo mezzo di lavoro e di trasporto da una via all’altra, da un paese all’altro. Aveva montato sul manubrio del biciclo la mola rotante con un piccolo rubinetto che sgocciolava quando affilava e ai lati dei pedali una grande ruota di ferro; tramite una cinghia collegata alle due ruote, girando i pedali della bicicletta, faceva ruotare la mola abrasiva. Prima di iniziare il lavoro, sistemava la bicicletta sul cavalletto robusto e seduto sulla sella del biciclo, pedalava e molava. Ancora oggi, ma con tecnologie moderne, gli arrotini vanno in giro per città e paesi, annunciando sempre il loro arrivo, oggi con un megafono, lo stesso ritornello “È rrivátu lu mmolafórbici” (E’ arrivato l’arrotino). In passato si facevano affilare i coltelli di casa, le forbici per cucire e ricamare, i coltelli dei macellai, dei calzolai, dei pellai e dei falegnami, le forbici dei sarti e dei barbieri secondo l’utilizzo e consumo quotidiano; il compenso era modesto e qualche artigiano si disobbligava in natura. Il rituale usato alla fine di ogni affilatura era la prova, specialmente quella delle forbici che consisteva nel tagliare uno straccio vecchio e sporco che portava sempre con sé, appeso ad un gancio. E’ ancora vivo nella memoria ciò che mi disse uno di loro quando ero giovanissimo: «Ragazzo mio, l’abilità consiste nel posizionare la mano nel verso giusto, retto, senza tremolio, seguendo un ritmo dettato dal suono della mola. Il coltello si affila dritto e per non sbagliare si ascolta il suono della mola, come un maestro di musica quando compone una melodia al pianoforte». Fu spontanea la mia domanda: «Qual’è allora il tuo segreto?» E lui: «Quando il suono è cupo, monotono, duro, non si sta affilando niente, anzi, forse si sta danneggiando la lama. Al contrario se il suono è acuto, stridente, è sintomo di una mano ben adagiata e ferma, perfetta per affilare». A distanza di anni posso dire “ca quiru mmolafórbici éra nnu méstru” (che quell’arrotino era un maestro) perché aveva svelato il suo segreto ad un ragazzo curioso che aveva compreso come avesse trasformato in arte il suo mestiere. Cosimo Luccarelli
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